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LA RELIGIONE ALLA SVOLTA DEL MILLENNIO

di Edward Goldsmith

Otto anni fa, durante un convegno svoltosi su una nave che ci conduceva
a Patmos, dove San Giovanni scrisse l’Apocalisse, sua santità il Metropolita
Giovanni di Pergamo dichiarò che la distruzione dell’ambiente doveva
essere considerata un peccato. Era incoraggiante vedere dignitari delle
Chiese anglicana e cattolica romana dichiararsi subito d’accordo – come,
in realtà, fecero anche i relatori indù, giainista e zoroastriano. Ma probabilmente
nessuno di loro aveva compreso le profonde implicazioni di questa
dichiarazione che era, in realtà, un atto di accusa contro la nostra stessa
società industriale moderna.
Infatti, la distruzione del mondo naturale, che avanza a una velocità sempre
più grande, è l’inevitabile conseguenza di tutta l’avventura alla quale
la moderna società industriale si è così sinceramente consacrata e di cui il
“progresso” – in altri termini, la crescita economica – è la caratteristica dominante. Questo processo comporta soprattutto la sistematica sostituzione
del mondo naturale – il mondo reale frutto di 3000 milioni di anni di evoluzione
biologica ed ecologica – con un mondo di manufatti umani.
L’idea secondo la quale “distruggere l’ambiente è un peccato” pone un
altro problema. Affinché questa idea non resti puramente formale e le sue
implicazioni siano prese concretamente in considerazione, è necessario che
essa permei la nostra visione del mondo. Questo è vero per tutti, artisti di
strada, teologi o scienziati, anche se questi ultimi dicono di riconoscere
come “scientifica” solo una proposizione verificata (o falsificata) nelle condizioni
controllate del laboratorio. In effetti, si tratta di un’illusione, perché
la verifica e la refutazione servono solo a razionalizzare o legittimare delle
credenze già acquisite con l’intuizione, credenze meglio corrispondenti al
nostro paradigma e alla nostra visione del mondo. Per dirla con il grande
epistemologo Michael Polanyi: “Il test di convalida o di invalidazione è in
realtà non pertinente per quanto riguarda l’accettazione o il rifiuto delle credenze
fondamentali e sostenere che vi asterrete rigorosamente dal credere in qualcosa che sarà stato confutato equivale a esibire una falsa pretesa a
una severa autocritica”

La scienza come religione
Gli scienziati ortodossi, come tutti gli altri, faranno qualunque cosa per
preservare il loro paradigma, o visione del mondo, di fronte a una conoscenza
che sembri minarlo e dunque rigetteranno ogni proposizione che
sia in conflitto con esso. L’idea che distruggere l’ambiente è un peccato
è non soltanto inconciliabile con l’effettiva religione secolare, che è alla
base della visione del mondo dell’umanità industriale, ma rischia di minare
il suo più fondamentale principio e cioè che scienza, tecnologia e
industria – forse alleate col libero commercio – creeranno sulla terra un
paradiso materiale e tecnologico dal quale tutti i problemi che ci hanno
assillato per secoli come povertà, malattia, disoccupazione, mancanza di
alloggio, criminalità, tossicodipendenza – e, come ci hanno addirittura
assicurato alcuni scienziati, persino la morte stessa – saranno definitivamente
eliminati.
Ne deriva che tutti i benefici sono visti come opera dell’uomo, come
un prodotto dello sviluppo economico. Così la salute è vista come qualcosa
che è dispensata negli ospedali, o almeno dalla professione medica,
con l’ausilio delle ultime apparecchiature tecnologiche e delle droghe
farmaceutiche. La legge e l’ordine sono forniti dalla nostra polizia insieme
con i tribunali e il sistema carcerario, e così via. Ma nessun valore è
attribuito agli insostituibili benefici derivanti dal normale funzionamento
del mondo naturale, che assicura la stabilità del nostro clima, la fertilità
del nostro suolo, il rifornimento delle nostre scorte d’acqua e gli altri elementi
vitali di un pianeta funzionante. Ne consegue che essere privati di
questi non-benefici non può costituire un “costo” economico – e i sistemi naturali che li forniscono possono perciò essere distrutti con una quasi
totale impunità.
Questo atteggiamento è inoltre razionalizzato da scienziati ortodossi che
si propongono sistematicamente di denigrare i processi naturali. Darwin
descriveva la natura come “goffa, dissipatrice e fallibile”, e Sir Peter Medawar,
premio Nobel, parlava con disperazione delle “ingenue improvvisazioni
della natura”La scienza ortodossa vede altresì il mondo naturale come individualistico,aggressivo e spaventosamente crudele. Per Darwin, “tutta la natura è in guerra”, e il suo più eminente discepolo, T. H. Huxley, era d’accordo.
“Dal punto di vista del moralista”, sosteneva in una sua famosa conferenza
del 1890, “il mondo animale è quasi allo stesso livello di uno spettacolo di
gladiatori. Le creature sono trattate abbastanza bene e destinate al combattimento, per cui le più forti, veloci e astute vivono per combattere il giorno seguente. Lo spettatore non ha nemmeno bisogno di volgere i pollici in
basso perché nessuno viene mai graziato” – una dichiarazione che afferma
chiaramente quella che è stata definita una visione “gladiatoria” del mondo
naturale Per il sociologo americano Lester Ward, i terribili difetti del mondo naturale sono, come dice Donald Worster, “come un invito per l’uomo a diventare un ingegnere della natura e a creare, in base ai suoi stessi progetti,
un paradiso terrestre il cui funzionamento egli può organizzare e dirigere in
ogni dettaglio”.
Darwiniani e sociobiologi sono d’accordo. Secondo loro, è possibile
creare un mondo buono dove i reciproci rapporti siano ispirati a criteri etici,
ma per fare questo dobbiamo dichiarare guerra al malvagio mondo naturale.
Come dice Huxley, “il progresso etico della società non dipende dall’imitazione
del processo cosmico, e ancor meno dalla fuga di fronte ad esso, bensì
dal fatto di combatterlo”. Si tratta di uno dei più importanti principi di quello che è in effetti un culto religioso secolare, derivante direttamente da
un certo numero di ben documentati culti religiosi che fiorirono all’inizio
della storia dell’Occidente. Uno dei più conosciuti è quello degli gnostici,
il movimento “eretico” del primo cristianesimo che, come gli scienziati
ortodossi, considerava il mondo naturale inefficiente, anzi positivamente
malvagio. Essi non negavano che nel cosmo ci fosse ordine e legge, ma
pensavano che fosse “un ordine rigido e ostile, una legge tirannica e malvagia,
priva di senso e di bontà, estranea alle intenzioni dell’uomo e alla sua
essenza interiore”.
Dunque, per gli gnostici, Dio e il cosmo non erano più intimamente legati,
come nel mondo classico, ma erano diventati estranei l’uno all’altro – per
meglio dire, opposti. L’uomo era così condannato alla solitudine cosmica
come è condannato anche dalla scienza ortodossa. Il premio Nobel Jacques
Monod ammette, d’altronde, che l’uomo animistico poteva considerarsi
parte integrante di un mondo naturale. Egli dice infatti che “l’animismo
stabiliva un patto tra l’uomo e la natura, una profonda alleanza, al di fuori
della quale sembra esserci solo una terrificante solitudine. Ma oggi la scienza
ci ha rivelato la terribile verità, l’antica alleanza è stata infranta. L’uomo
finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’universo, nel quale non ha
una funzione, non ha doveri, e nel quale è emerso per puro caso”.8 Si tratta
di un dogma sorprendente largamente basato su un altro dogma – quello
della casualità dei processi naturali, in particolare dell’universale processo
della vita: l’evoluzione. Entrambi sono inconciliabili con qualunque vera
conoscenza della struttura e della funzione del mondo vivente.
Tuttavia, c’è una grande differenza tra la posizione degli gnostici e quella
dei tipici scienziati di oggi. Per i primi, Dio esigeva che l’umanità fuggisse
dal mondo malvagio e limitasse la vita alla dimensione spirituale. I
secondi, pur accettando le stesse premesse, arrivano a una conclusione molto
differente. Essi ammettono che il mondo è inefficiente e fatto male – mala risposta non consiste nella fuga, bensì nel rifarlo e trasformarlo secondo
il loro progetto, di gran lunga migliore. Questa è la suprema arroganza e
anche la suprema bestemmia. L’Homo scientificus si è deificato. Ricreare il
mondo è un suo dovere.
La cruciale importanza della conservazione dell’ordine del mondo vivente
comincia solo ora a diventare un’evidenza per quella che è ancora
una minoranza di scienziati, in buona misura grazie al lavoro di James Lovelock
e Lynn Margulis, i quali hanno dimostrato che la biosfera, ovvero
il mondo delle cose viventi, insieme con il suo sostrato geologico e il suo
ambiente atmosferico, costituisce un unico essere, al quale Lovelock allude
chiamandolo “Gaia” – la dea greca della terra. Lovelock sottolinea la
cruciale importanza della conservazione dell’ordine di Gaia. Se la dose di
ossigeno dell’atmosfera fosse troppo bassa, allora alcune specie non sarebbero
capaci di respirare, mentre se fosse troppo alta, l’atmosfera della terra
diventerebbe così infiammabile che una sola scintilla potrebbe far scoppiare
incontrollabili incendi. Se i suoi livelli di biossido di carbonio fossero
a loro volta troppo bassi, la terra sarebbe troppo fredda, e se troppo alti la
sua temperatura supererebbe quella che la maggior parte delle forme di vita
potrebbero sopportare – un principio che gli scienziati hanno trascurato a
spese dell’umanità e del mondo naturale. Solo ora lo stiamo comprendendo;
abbiamo sistematicamente cambiato la composizione dell’atmosfera, e
siamo coinvolti in quella che sembra essere una reazione a catena nei confronti
di una destabilizzazione climatica sempre più grave.

L’importanza dell’olismo
Alla luce di quanto detto finora, la nostra tesi è la seguente: contrariamente
a quanto ci dicono gli scienziati ortodossi, ho costantemente sostenuto
che i sistemi naturali, a differenti livelli di organizzazione, cercano, coi scientemente o no, di conservare l’ordine degli insiemi di cui fanno parte.
Il biologo Ludwig von Bertalanffy era colpito dal “carattere complessivamente
conservativo” dei processi vitali al livello dell’organismo biologico.9
Allo stesso modo, il biologo austriaco Ungerer era così impressionato dalla
“funzione complessivamente conservativa dei processi vitali” da decidere
di sostituire la nozione di “finalità” con quella di “totalità”.10
Che le parti costitutive di ogni sistema naturale debbano lottare per
conservare il suo ordine complessivo è evidente, perché si sono evolute
per compiere le loro specifiche funzioni all’interno di esso, e perciò il loro
benessere e quindi la loro sopravvivenza dipendono totalmente dalla preservazione
del sistema. Eugene Odum, il cui Fundamentals of Ecology è
stato per decenni il libro di testo standard nelle università americane, nota
che “l’individuo non può sopravvivere a lungo senza il suo gruppo, così
come nessun organo potrebbe sopravvivere a lungo come unità in grado di
auto-perpetuarsi senza il suo organismo”. Così, bambini allevati in una
famiglia sfasciata, come confermerà ogni assistente sociale, tendono spesso
ad essere affettivamente instabili e hanno una possibilità molto più grande
di diventare disadattati sociali, delinquenti e criminali.
La famiglia, tuttavia, non può crescere bene come piccola oasi di ordine
in un mare di disordine sociale, ma deve essere parte di una comunità coesa,
che nel mondo tradizionale ha una importanza tale da non poter immaginare
la vita al di fuori di essa. Naturalmente, non possono sopravvivere
nemmeno i singoli, le famiglie e le comunità, se viene distrutto l’ordine del
mondo naturale o dell’ecosfera, come presto comprenderà persino il più
fanatico adepto del culto dell’egoismo.
Purtroppo, questo principio chiave diventa evidente solo quando i processi
vitali sono considerati dal punto di vista del loro rapporto con l’insieme
di cui fanno parte. Gli scienziati ortodossi che insistono a studiare
i processi vitali isolandoli dall’insieme – la cui reale esistenza la maggior parte di loro scelgono di ignorare – continuano a vederli come casuali, malleabili,
senza scopo e auto-referenziali. La migliore illustrazione di questa
idea è rinvenibile negli scritti del professor Richard Dawkins della Oxford
University, per il quale non c’è “un vantaggio selettivo nel mostrarsi preoccupati
per la stabilità e l’integrità dell’insieme”.12
Se il comportamento è considerato riduttivamente, allora non c’è alcuna
possibilità di poter affermare la sua funzione tendente alla conservazione
dell’insieme, e quindi alcuna possibilità di distinguere tra comportamento
che serve alla conservazione e quello che serve alla distruzione dell’ordine
del mondo vivente. Questa distinzione chiave, estranea alla scienza ortodossa,
è tuttavia cruciale nelle primitive religioni arcaiche come il giudaismo
(si veda in particolare, più avanti, il contributo di Margaret Barker).

Perché le religioni tradizionali hanno trascurato la terra
Se è impossibile riconciliare l’idea che la distruzione dell’ambiente è un peccato
con la scienza ortodossa e la religione gnostica, è altresì difficile – sebbene
niente affatto impossibile – riconciliarla con le tipiche religioni moderne.
Anche se non considerano il mondo naturale ed anzi il cosmo come
malvagio, esse mostrano tuttavia uno scarso interesse nei suoi riguardi.
In verità, oggi queste religioni sono sempre più orientate verso il mondo
ultraterreno, e hanno smesso di svolgere il loro originario ruolo di legame
tra le persone e la loro società, il mondo naturale e l’onnicomprensivo
cosmo. Nella società atomizzata che abbiamo creato, hanno senso solo i
rapporti interpersonali, e la religione diventa addirittura poco più di un rapporto
personale tra un uomo ora asociale e insensibile ai valori ecologici e
un Dio al quale sono attribuite queste stesse caratteristiche.
La religione tradizionale ha smarrito la sua strada e ha bisogno di tornare
alle sue radici, andando anche oltre e imparando dalla saggezza dei popoli primitivi. L’articolo di Darryl Wilson “La storia di mio nonno” conferma
questa tesi mostrandoci come un popolo indiano ha visto il suo rapporto
con il cosmo. L’importanza delle religioni tribali risiede nel fatto che sono totalmente riconciliabili con l’idea che la distruzione dell’ambiente è un peccato – questo è anzi spesso il loro più fondamentale insegnamento. Ad esempio, Robert
Parsons, nel suo libro sulla religione dei Kono della Sierra Leone, mostra
che la loro religione “non è soltanto un’organizzazione dei rapporti umani,
ma comprende anche i rapporti del popolo con la terra nel suo insieme, con
il territorio e il mondo invisibile delle forze costruttive e degli esseri nei
quali essi credono. La religione li inserisce in un insieme coerente”.
Per i Kono, “la terra è più di un composto di particelle inanimate del
suolo; è un essere vivente, la sposa di Dio, dalla illimitata potenza procreatrice,
che produce l’abbondante vegetazione tropicale. La principale preoccupazione
dei Kono, come di tutti i popoli tribali, è di conservare l’armonia
cosmica”. L’antropologo Henrick Kraemer osserva anche come, nelle società
primitive, “l’interesse dominante è di preservare e perpetuare l’armonia
sociale, la stabilità e il benessere. I culti religiosi e le pratiche magiche si
prefiggono principalmente questo scopo”. Chiunque abbia vissuto con un
“popolo primitivo” e abbia cercato di comprenderlo, conosce il radicato terrore
nei confronti di ogni disturbo dell’armonia e dell’equilibrio universale
e sociale. Se questa armonia viene violata nella sfera cosmica – ad esempio,
a causa di un insolito evento naturale – o in quella sociale, a causa di una
trasgressione della tradizione o di un evento sconvolgente, questo suscita
una comune e vigorosa attività religiosa per restaurare l’armonia e quindi
salvare la fertilità dei loro campi, la loro salute, la sicurezza delle loro famiglie,
la stabilità e il benessere della loro tribù dall’incombente pericolo.
In effetti, quasi tutte le attività dei popoli tribali sono finalizzate a quel’importanza sto stesso obiettivo, si tratti delle loro attività agricole, delle tecniche, della
costruzione delle case, dei templi, dei villaggi o della esecuzione dei rituali
sacri. Al di là della loro funzione pratica, esse servono, ai loro occhi, a
conservare l’ordine del cosmo. Infatti, violare questo principio, e in particolare
trascurare l’esecuzione di questi rituali sacri, equivale a violare ogni
genere di tabù – e, secondo Roger Caillois, “un atto è tabù perché infrange
l’ordine universale, che è al contempo quello della natura e della società”.
Così facendo, “la terra potrebbe non dare più un raccolti, il bestiame potrebbe
essere colpito da infertilità, le stelle potrebbero non seguire più la loro
traiettoria prestabilita, morte e malattia potrebbero infuriare sulla terra”.
Violare un tabù significa essere colpevoli di un peccato cosmico.
Ed in effetti, ciò può essere considerato vero. Le recenti tempeste e alluvioni
a Orissa e in Vietnam, e l’aumentata incidenza di devastanti siccità
ovunque nel mondo, sono il risultato della deforestazione e della trasformazione
chimica dell’atmosfera che assomiglia così sempre meno a quella di
cui avremmo bisogno per conservare l’equilibrio dell’ecosfera. Ci piaccia o
no, la cultura religiosa dei popoli tribali dice loro la verità sul rapporto con
il cosmo. E lo fa, naturalmente, dal loro particolare punto di vista – quello
che essi meglio comprendono e in cui credono – non solo intellettualmente,
ma con il cuore e l’anima. Dice loro la verità sulla via che con tutta probabilità
deve essere percorsa.

Religione ed ecologia
Il grande antropologo Roy Rappaport fa notare che l’importante problema
relativo alle credenze o “modelli cognitivi” dei popoli primitivi “non è il
loro grado di adesione a quella che gli analisti affermano essere la realtà, ma
il modo in cui il loro comportamento è appropriato al benessere degli attori
e degli ecosistemi ai quali partecipano”. Egli avrebbe potuto aggiungere: “e all’integrità dell’ecosfera nel suo insieme”. “Il criterio dell’adeguatezza
per un modello non è la sua precisione, ma la sua efficacia di adattamento”
nel vero senso olistico del termine. Se le credenze primitive o “modelli cognitivi”
soddisfano questo criterio, allora sono chiaramente “vere” nel senso
più pieno della parola, nonostante il fatto che queste credenze possono
essere formulate nel linguaggio degli dèi e degli spiriti la cui esistenza fisica
potrebbe essere negata dai nostri scienziati che, in questo modo, si lascerebbero
sfuggire l’essenziale. Perché non ha alcuna importanza stabilire se si
tratta o no di figure storiche. Essi sono anzitutto degli archetipi. Lo stesso
vale per le grandi religioni tradizionali. È irrilevante chiedersi se il diluvio
di Noè descritto nel Vecchio Testamento è veramente avvenuto. Potrebbe
benissimo essere successo, ma non è questo il punto. Il diluvio simboleggia
le forze del caos che si scatenarono quando il popolo smise di osservare
l’alleanza cosmica. Il diluvio di Noè era un archetipo, non necessariamente
un evento storico, e il suo ruolo in quanto archetipo è incomparabilmente
più importante, nella determinazione del comportamento adattativo umano,
di ogni possibile ruolo che esso può svolgere in quanto verità scientifica o
storica. Questo ci porta al nostro vero scopo, che è soprattutto di mostrare che
queste idee occupavano un posto di primo piano nella teologia delle nostre
prime, grandi religioni, ma che le abbiamo perse di vista. Se è così,
allora dobbiamo recuperarle, perché soltanto così la religione può ispirare
gli uomini a unirsi contro le forze del caos che minacciano la loro stessa
sopravvivenza.