PER UNA GIORNATA DELLA CREAZIONE
di Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli
Il patriarca ecumenico Dimitrios I, nostro predecessore, nella sua lettera
enciclica del 1989, ha pronunciato delle parole profetiche che ci sembra
opportuno ricordare: esortando i cristiani a celebrare il primo settembre
come giorno di preghiera per la protezione dell’ambiente, egli sottolineava
il bisogno per tutti noi di dare prova di uno “spirito eucaristico e ascetico”.
Creazione e dono di Dio
Riflettiamo su queste due parole: “eucaristico” e “ascetico”. Le implicazioni
della prima parola sono facilmente intuibili. Facendo appello a uno
“spirito eucaristico”, il Patriarca Dimitrios ci ricordava che il mondo creato
non è soltanto in nostro possesso, ma che si tratta di un dono – un dono di
Dio, il Creatore, un dono di guarigione, un dono di meraviglia e di bellezza
– e che la nostra risposta appropriata, ricevendo questo dono, deve consistere
nell’accettarlo con gratitudine e azione di grazia. Questo è certamente
il carattere che ci distingue in quanto esseri umani: l’essere umano non è
soltanto un animale logico o politico, ma anzitutto un animale eucaristico,
capace di gratitudine e dotato del potere di rendere grazie a Dio per il dono
della creazione. Gli altri animali esprimono la loro gratitudine semplicemente
essendo se stessi, vivendo nel mondo nel loro tipico modo istintivo.
Ma noi, esseri umani, possediamo una coscienza di noi stessi, e perciò, in
modo cosciente e in virtù di una scelta deliberata, possiamo rendere grazie
a Dio con una gioia eucaristica. Senza questa azione di grazia, non siamo
veramente uomini.
Ma cosa intendeva il patriarca Dimitrios con la seconda parola, “ascetico”?
Quando parliamo di ascetismo, pensiamo a cose come il digiuno, le
veglie e le pratiche rigorose, che sono effettivamente una parte dello spazio
semantico coperto dalla parola; ma il termine askesis significa molto più di
questo. Significa, per quanto riguarda l’ambiente, che dobbiamo dar prova
di ciò che la “Filocalia” e altri testi spirituali della Chiesa ortodossa chiamano
enkrateia, “dominio di sé”.
Questo significa che ci dobbiamo volontariamente limitare nel nostro consumo di cibo e di risorse naturali. Ciascuno di noi è chiamato a fare
una distinzione cruciale tra ciò che vogliamo e ciò di cui abbiamo bisogno.
Solo attraverso tale abnegazione, attraverso talvolta la nostra disponibilità
a rinunciare e a dire “no” o “basta”, riscopriremo il nostro vero posto nell’universo.
Il criterio fondamentale per un’etica dell’ambiente non è né individualistico,
né commerciale. L’acquisizione di beni materiali non può giustificare
il desiderio egoistico di controllare le risorse naturali del mondo. L’avidità
e l’avarizia rendono il mondo opaco, trasformando tutto in polvere e ceneri.
La generosità e il disinteresse rendono il mondo trasparente, trasformando
tutto in sacramento di comunione pieno d’amore – una comunione degli
esseri umani tra loro, una comunione degli esseri umani con Dio.
Il sacrificio e il dono
Questo bisogno di uno spirito ascetico può essere riassunto in una sola parola-
chiave: il sacrificio. È esattamente questa la dimensione che manca alla
nostra etica dell’ambiente e alla nostra azione ecologica. Tutti noi siamo
fin troppo coscienti dell’ostacolo fondamentale che dobbiamo fronteggiare
nella nostra azione in favore dell’ambiente, e che è precisamente questo:
come possiamo passare dalla teoria all’azione, dalle parole agli atti? Non ci
mancano informazioni scientifiche e tecniche sulla natura dell’attuale crisi
ecologica. Sappiamo non soltanto cosa fare, ma anche come farlo. Eppure,
malgrado tutte queste informazioni, purtroppo in pratica non facciamo
granché. Il cammino dalla testa al cuore è lungo, ed ancora più lungo quello
dalla testa alle mani.
Come possiamo superare questa tragica distanza tra la teoria e la pratica,
tra le idee e la realtà? C’è un solo modo: grazie alla dimensione del sacrificio
che ci manca. Pensiamo qui a un sacrificio che non è facile, ma costoso:
“Non offrirò al Signore mio Dio olocausti che non mi costino nulla” (2 Samuele
24, 24). Vi saranno cambiamenti reali e concreti nell’ambiente solo
se saremo preparati a fare sacrifici radicali, difficili e veramente generosi. Se non sacrificheremo niente, non avremo niente. Inutile dire che, per quanto
riguarda le nazioni e le persone, dai ricchi è lecito attendersi molto più
che dai poveri. Tuttavia, tutti sono chiamati a sacrificare qualcosa in nome
dei loro concittadini.
Il sacrificio è anzitutto una questione spirituale molto più che economica.
Parlando di sacrificio, parliamo di una questione che non è tecnologica,
ma etica. Parliamo spesso di crisi dell’ambiente; orbene, la vera crisi risiede
non nell’ambiente, ma nel cuore dell’uomo. Il problema fondamentale deve
essere ricercato non all’esterno, ma all’interno di noi stessi, non nell’ecosistema,
ma nel nostro modo di pensare.
La causa originaria di tutte le nostre difficoltà risiede nell’egoismo e nel
peccato dell’uomo. Quello che ci occorre, non sono maggiori competenze
tecnologiche, ma un più grande pentimento – una metanoia nel senso letterale
del termine greco, che significa “conversione del cuore”. La causa
principale del nostro peccato nei confronti dell’ambiente risiede nel nostro
egoismo e nell’ordine di valori erroneo che abbiamo ricevuto in eredità e
che accettiamo senza alcun senso critico. Abbiamo bisogno di un nuovo
modo di riflettere su noi stessi, sulla nostra relazione con il mondo e con
Dio. Senza questa rivoluzionaria “conversione del cuore”, tutti i nostri progetti
di conservazione, quali che siano le nostre buone intenzioni, si riveleranno
inefficaci perché ci occuperemo solo dei sintomi e non delle loro cause.
Gli interventi e le conferenze possono aiutare a ridestare le coscienze,
ma ciò di cui abbiamo davvero bisogno è un battesimo di lacrime.
Parlare di sacrificio è fuori moda e persino impopolare nel mondo moderno.
Ma se l’idea di sacrificio è impopolare, è anzitutto perché numerose
persone hanno un’idea erronea di ciò che significa veramente il sacrificio.
Esse immaginano che il sacrificio significhi una perdita o la morte; vedono
il sacrificio come qualcosa di tetro o di triste. Probabilmente perché,
attraverso i secoli, sono stati utilizzati dei concetti religiosi per introdurre
distinzioni tra coloro che hanno e coloro che non hanno, come pure per
giustificare l’avarizia, l’abuso e l’arroganza. Ma se consideriamo il modo in cui il sacrificio era concepito nell’Antico
Testamento, vediamo che gli ebrei avevano una concezione totalmente
differente del suo significato. Per loro, il sacrificio significava non la perdita,
ma il guadagno, non la morte, ma la vita. Il sacrifico era costoso, ma
non conduceva alla perdita, bensì al compimento; rappresentava un cambiamento non in peggio, ma in meglio. Soprattutto per gli ebrei, il sacrificio
non significava rinunciare, ma semplicemente dare. Nella sua essenza
fondamentale, il sacrificio è un dono – un’offerta volontaria resa dall’uomo
a Dio nel culto.
Sacrificio e abbondanza
Così, nell’Antico Testamento, benché il sacrificio implicasse l’uccisione di
un animale, l’obiettivo non era quello di togliere, ma di dare la vita; non
la morte dell’animale, ma il dono della vita dell’animale a Dio. Attraverso
questa offerta sacrificale, veniva stabilito un legame tra il fedele umano e
Dio. Una volta accettato da Dio, il dono era consacrato, diventando uno
strumento di comunione tra lui e il suo popolo. Per gli ebrei, i digiuni – e
i sacrifici che li accompagnavano – erano “gioia, giubilo, giorni di festa”
(Zaccaria 8, 19).
Un elemento essenziale di ogni sacrificio è che deve essere spontaneo e
volontario. Quello che ci viene carpito con la forza e la violenza, e contro la
nostra volontà, non è un sacrificio. Solo ciò che offriamo nella libertà e nell’amore è veramente un sacrificio. Non c’è sacrificio senza amore. Quando
abbandoniamo qualcosa contro il nostro volere, subiamo una perdita, ma
quando offriamo qualcosa volontariamente, non possiamo che guadagnarci.
Quando, quaranta giorni dopo la nascita di Cristo, la Vergine Maria,
accompagnata da Giuseppe, si recò al Tempio e offrì suo figlio a Dio, il suo
atto di sacrificio non le procurò sofferenza, ma gioia. Ella non perse il suo
bambino, che divenne suo come mai avrebbe potuto esserlo altrimenti. Cristo
ha proclamato questo mistero apparentemente contraddittorio quando ha insegnato: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà” (Matteo 10, 39
e 16, 25).
Quando sacrifichiamo la nostra vita e condividiamo la nostra ricchezza,
guadagniamo la vita in abbondanza e arricchiamo il mondo intero. Questa è
l’esperienza dell’umanità oltre i secoli: kenosis (rinunciare) significa plerosis
(colmare): spogliarsi volontariamente porta a realizzarsi.
Sacerdoti della creazione
Dobbiamo applicare tutto questo alla nostra azione in favore dell’ambiente.
Non può esserci speranza di salvezza per il mondo, speranza di un avvenire
migliore, senza la dimensione del sacrificio che ci fa difetto. Senza un sacrificio
costoso ed esigente, non potremo mai agire in quanto sacerdoti della
creazione per capovolgere la spirale della degradazione dell’ambiente.
Il cammino che si apre davanti a noi, mentre continuiamo il nostro viaggio
spirituale nell’esplorazione ecologica, è indicato in modo sorprendente
nella cerimonia della grande benedizione delle acque, celebrata dalla Chiesa
ortodossa il sei gennaio, festa della Teofania, quando commemoriamo il
battesimo di Cristo nel fiume Giordano. La grande benedizione comincia
con un inno di lode a Dio per la bellezza e l’armonia della creazione: “Tu
sei grande, Signore, e meravigliose sono le tue opere: nessuna parola basta
a cantare le lodi delle tue meraviglie […] Il sole canta la tua lode; la luna
ti glorifica; le stelle ti innalzano la loro supplica; la luce ti obbedisce; gli
abissi temono la tua presenza; le fonti sono al tuo servizio, hai dispiegato
i cieli come una tenda; hai stabilito la terra sulle acque; hai circondato il
mare di sabbia, hai lasciato che l’aria si diffondesse affinché le creature
umane potessero respirare”. Poi, dopo questa dossologia che abbraccia tutto
il cosmo, arriva il punto culminante della cerimonia di benedizione. Il
celebrante prende una croce e la immerge in un recipiente d’acqua – se la
cerimonia ha luogo all’interno di una chiesa – o nel fiume o nel mare – se
la cerimonia ha luogo all’esterno.
La Croce è il simbolo che ci guida nel sacrificio supremo al quale siamo chiamati. Essa santifica le acque e, attraverso di esse, trasforma il mondo
intero. Chi può dimenticare l’imponente simbolo della croce nello splendido
mosaico della basilica di Sant’Apollinare in Classe, a Ravenna, in Italia?
Celebrando la liturgia eucaristica a Ravenna, la nostra attenzione era fissata
sulla Croce, che stava al centro della nostra visione celeste, al centro della
bellezza naturale che la circondava e al centro della nostra celebrazione
del cielo sulla terra. Questo è il modello che deve guidare i nostri sforzi in
favore dell’ambiente. Questo è il fondamento di ogni etica dell’ambiente.
La Croce deve essere immersa nelle acque. La Croce deve essere al centro
della nostra visione. Senza la Croce, senza il sacrificio, non può esserci
benedizione, né trasfigurazione del cosmo.